E’ un po’ di notti che non dormo pensando a lui. Rimango nel buio ad occhi sbarrati, ripensando ai tempi in cui mi addormentavo con il sorriso in bocca,immaginando quel momento, dopo l’esame: gli avrei stretto la mano , ringraziandolo per la confusione che aveva generato in me, confessandogli finalmente la mia decisione di dedicare a lui tutto il resto della mia vita.
Lui, il mio mentòre.
Quello che faceva era grandioso.
Ogni cosa che diceva metteva in subbuglio le mie certezze.
Mi guardava negli occhi senza mollarmi. Un botta e risposta generato da una domanda. Io che mi sporgevo sempre più sulla sedia, avvicinandomi a lui come per voler afferrare la sua verità. Poi diceva qualcosa di assolutamente sconvolgente. Sentivo le scatole dei miei concetti sbattere ed agitarsi come maracas, niente si deve cristallizzare.
Allora arretravo improvvisamente sullo schienale, dritta come un fuso, troppo per me, diceva il mio “AH!”
Rideva lui, riprendendo a muoversi per l’aula e lasciandomi viandante tra i miei pensieri confusi.
Il suo sguardo tornava su di me di soppiatto e quella luce in quell’angolo oscuro della pupilla mi comunicava la sua fiducia, dichiarava che ero sulla buona strada per capire.
Teneva lezione ogni venerdì e sabato dalle 8 di mattina alle 5 di sera con piccole, brevi, ma dovute pause.
Quasi subito avevo preso l’ abitudine di alzarmi alle 6 , sollevare la tapparella , posizionare il tavolo davanti alla finestra e sorseggiare il mio caffè aspettando l’alba. Poi mi incamminavo a piedi per raggiungerlo. Sempre a piedi tornavo. Come se l’energia in preparazione ed in uscita dovesse implodere dentro di me, come se fosse un incontro segreto e personalissimo quello tra di noi , unico scopo delle mie settimane,mi innalzava ad un livello non mio e provocava capogiri, vertigini ed un’indomabile forza.
Nei primi mesi ho cambiato tre volte pettinatura. Il giorno che mi sono presentata rasata ha tenuto un’intera lezione, ha speso un’intera giornata sull'importanza del look adattativo.
In una di queste breve pause mi si è seduto alle spalle, non l’ho sentito arrivare, troppo persa nelle mie ruminazioni. Rullavo una sigaretta di tabacco. Quasi all’orecchio, con il suo accento strano di chi ha Napoli nel cuore, ma è trapiantato a Roma da più di quarant’anni: “Perché lo fai?”.
Io incredula: “Perché uso tabacco o perché fumo?”. Ride. Racconta di quando ha dovuto abbandonare quel vizio che altrimenti l’avrebbe ucciso.
Dovevo capire che mi stava comunicando la sua mancanza di tempo. Ma non ho colto.
Il Prof MMP era il terrore dell’intero corso. Si diceva, e non era leggenda, che le sue interrogazioni durassero più di 2 ore. L’inaffrontabile programma di dodici libri ,4800 pagine tolti i bianchi e bibliografie, effettive dunque, costringevano ad un reset mentale totale,alla completa dedizione, all’umiltà del mettersi in gioco.
Ho consumato quei libri. Cercavo fili logici superficiali e segreti, facevo schemi che poi buttavo. Niente va rinchiuso in modo perenne. L’attenzione deve essere libera di fluttuare, la conoscenza deve essere e rimanere fluida, per raggiungere anche l’angolo inaspettato, quel passaggio mai considerato.
L’ultimo giorno di lezione sono rimasta sulla porta a guardarlo. Quel grazie rimbombava dentro di me con la potenza della futura assenza. Ma non si fa prima di un esame. Assume connotazioni di paraculo che avrebbero sporcato la mia dichiarazione. Lui era la strada.
Al primo appello estivo non me la sono sentita. Dovevo essere perfetta. Una chiacchierata piacevole tra due persone che si stimano, ma ancora non ero neppure la pallida imitazione della sua ombra.
Ho frantumato quei libri, li ho divorati in ogni piccola virgola ed accento.
Ogni notte immaginavo il momento in cui la mia mano avrebbe cercato la sua e, commossa, mi sarei donata alla sua causa,
Lui salvava vite nel senso più ampio, pieno ed intenso che si possa immaginare.
L’esame era il 29 ottobre, ma lui non ha potuto aspettarmi.
Aveva dato troppo, aveva già donato tutto, questo io lo so, ma quando il 16 mi è stata data notizia che nella notte era morto, così, senza preavviso, sono stata assalita dalla più profonda disperazione.
Ho pianto, senza che nessuno potesse capirmi.
“E’ solo un professore”. Dicevano, incapaci di vedere la passione che quest’uomo mi aveva infuso per il mio lavoro, sordi al marasma che regnava nella mia testa.
Non ho ancora raggiunto quella luce Professore. Continuo a farmi disarmare da ogni cosa nuova che imparo, ricostruendo in modo liquido piccole, sempre nuove certezze ,che vengono cancellate dall’accadimento successivo. Quel grazie risuona sempre dentro me bagnato delle lacrime che ho smesso di versare,ma che continuano ad infrangermi dentro.
Questo è il prezzo che devo pagare per essere arrivata tardi al nostro appuntamento. Sapevo che mi stava aspettando, ma la mia piccolezza mi ha impedito di raggiungerla. Mi volevo vestire di gloria, mentre dovevo presentarmi nuda della mia modestia.
In questi momenti in cui non trovo le forze per cercare la mia strada, in cui mi accontento di non desiderare nulla di quello che vive fuori da quella porta, mi esplode dentro la sua immagine.
Dedicherò comunque a Lei la mia vita, mi farò invadere dal caos come mi ha insegnato. Non avrò come obiettivo ultimo quello di non aver più paura, ma di farla crescere ed affrontarla.
Solo che ora mi mancano i suoi occhi, la loro luce, le mie speranze, quello che le avrei visto costruire giorno dopo giorno, per il resto della mia vita.